Replying to IN SARDEGNA. Leggende e cronache dei tempi antichi (Parte 1)

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  1. Posted 6/12/2023, 19:59
    JOSTO

    [scritto anche Iosto (in latino: Hiostus; Cornus, III secolo a.C. – Decimomannu, 215 a.C.)].

    Era Pretore in Sardegna Q. Muzio Scevola, e ferveva la guerra fra le due grandi rivali Roma e Cartagine.
    La Sardegna, dominio primo dei cartaginesi, era divenuta serva dei romani; ed i novelli signori, con tirannico governo, esercitavano sopra i sardi tutti i loro diritti di conquista.
    Sono sempre dubbie le sorti della guerra, e Roma, da scaltra, sfruttava, per il tempo che poteva tenerla sotto il suo potere, la Sardegna, che allora era – insula magnitudine et multitudine hominum, et omnium fructuum genere execllens – come scrisse Polibio.
    Ma un giorno lo spirito d’indipendenza aleggiò sopra l’isola, e nel petto dei sardi principiò a battere con violenza il cuore, perché dalle città ai più umili villaggi, dai monti al mare, era corso un grido: Libertà!
    Ed a quel grido si adunarono armi e armati, e si formarono le schiere.
    Il nemico era potente, ed era contro Roma, che aveva tante legioni da non bastare a contenerle l’isola tutta, che si ribellarono i generosi figli della Sardegna. Ma si contano forse i nemici quando si combatte per toglierci dal piede l’anello dello schiavo?
    Guida i Sardi alla guerra santa un prode, un eroe da leggenda, Josto.

    Nel territorio dove oggi sorgono i due villaggi Santu Lussurgiu e Pozzomaggiore, abitava una tribù fiera e valorosa. Erano uomini indomiti dalle membra vigorose, in parte coperte da pelli di muflone, e che si chiamavano Pellidi, forse dalla natura della loro veste.
    Ribelli a qualunque dominio, vivevano temuti e rispettati entro il recinto delle loro capanne, ed amavano molto le loro donne e la terra dove erano nati.
    Per i nemici le abitazioni dei Pellidi erano covi di fiere, ma per gli amici erano luoghi di sacro asilo. Chi aveva un’onta da vendicare, chi un prepotente da punire, correva presso la generosa tribù, e vi trovava sempre un braccio che si univa al suo, un ferro che colpiva, un labbro che non mentiva, un cuore che non tremava.
    Dall’arco dei Pellidi non scoccava invano il dardo, ed in tutta l’isola correva sì la fama delle loro gesta alla guerra, alla caccia, alle corse, che si diceva: bravo come un Pellide.
    Odiavano essi tanto i Cartaginesi quanto i Romani, ed era con gioia feroce che contemplavano le punte acuminate delle loro lunghe lance tinte col sangue dei conquistatori.

    Era alta la notte. In un luogo appartato, cinto da alberi annosi, stavano più di cento Pellidi.
    La luna, delizia del nostro cielo, versava la sua luce bianca, vaporosa, sopra quei volti fieri dalle lunghe barbe, e sopra le punte delle picche che parevano d’argento. Il capo della tribù, Orosio, vecchio venerando, stava in mezzo ai suoi, e parlava loro con voce vibrata, e la sua parola accompagnava con gesti concitati.
    Ad un tratto egli tacque, ed in mezzo ad un silenzio, che permetteva d’udire lo stormire delle foglie mosse dalla brezza della notte, giunse all’orecchio dei Pellidi distinto il rumore di un cavallo, che si avanzava al galoppo.
    “È lui!”, disse Orosio.
    Dopo brevi istanti giungeva in mezzo ai radunati un giovane e bel cavaliere, che balzato d’un salto dalla groppa del cavallo, andò a porsi innanzi al vecchio capo.
    “T’aspettavo, Josto”, disse Orosio porgendo la destra al nuovo arrivato. E poi aggiunse: “Parla!”.
    “Il giorno della riscossa è giunto!”, principiò Josto.
    “I nostri crudeli nemici, i Romani, stanno per cadere sotto i colpi delle nostre spade; gli schiavi stanno per frangere le loro catene! E voi, i più prodi fra i figli di questa nostra patria sventurata, rimarrete inerti, qui nelle vostre capanne, mentre poco da voi lontano si combatte per fiaccare l’orgoglio di questi Romani?”.
    “Mai”, risposero cento voci.
    “Allora affilate il ferro delle vostre picche, aguzzate la punta dei vostri dardi, che l’ora della battaglia s’avvicina; e questa volta gli Dei tutelari dell’isola nostra ci daranno la vittoria. Tutto a noi sorride: l’aura nostra stessa avvelena il romano Pretore; la febbre lo rende un inferno e impotente a comandare i suoi soldati; mio padre Arsicora ha ricevuto da Cartagine la lieta novella che Asdrubale il calvo, con numerosa squadra navale, salpa alla volta della Sardegna per venire in nostro aiuto. Così i nemici d’ieri saranno i nostri amici d’oggi, perché un odio comune unisce le nostre destre, perché un grido solo esce dal nostro labbro: morte ai Romani!
    “E sia”, rispose Orosio. “Ma dimmi, o Josto, hai mai tu pensato che il braccio dello straniero porta sventura? E, a guerra finita, credi tu che i nostri alleati non ritornino i nostri oppressori? Stimi forse tu migliori i Cartaginesi dei Romani? Per me gli uni e gli altri sono stranieri, e siano maledetti!”.
    “Oggi noi vogliamo toglierci dal collo il giogo di Roma, ed ogni mezzo è buono per riuscire nell’impresa. Solo, come potremo lottare contro un nemico tanto potente? E poi, se Cartagine distruggerà nel nostro petto il sentimento di gratitudine e tornerà nostra nemica, tremi alla sua volta: i ferri dei Sardo le pagheranno ad usura il prezzo del suo sleale soccorso”.
    “Tu sei giovane, o Josto, sei baldo e valoroso, ma io sono vecchio e gli anni mi hanno insegnato a dubitare. E che gli Dei disperdano i miei sospetti. O figlio di Arsicora, la vittoria sorrida a te, e che la patria sia libera da straniero servaggio. Intanto confida nei Pellidi. Ogni uomo fra noi atto a portare arco e faretra ti seguirà. Ed ora vieni sotto il mio tetto: là ti aspetta Zoesca, la figlia mia. Dopo la patria, l’amore. Andiamo”.
    E tutti seguirono Orosio, ed il luogo rimase deserto.

    Zoesca era la fidanzata di Josto.
    La figlia d’Orosio era il vero tipo di quella bellezza melanconica, affascinante, che ancora s’incontra in alcune fanciulle della Sardegna: volto dalla tinta bruna-pallida, grandi occhi nerissimi velati da lunghe palpebre, corpo flessuoso di forme elette con movenze voluttuose.
    L’eroe amava, come sanno amare i valorosi, la leggiadra Zoesca, e Zoesca viveva questo amore.
    Non era ancora l’alba, e Josto aveva afferrato la criniera del suo cavallo e si dipartiva dalla sua bella: ma Zoesca dolcemente lo tratteneva, mentre egli le diceva:
    “Zoesca, io t’amo, ma più di te amo la patria: addio”.
    “Aspetta, Josto, aspetta almeno che il sole abbia finito di sorgere là dietro il monte. Ed ora guardami: non sono forse più bella?”.
    “Sei tanto bella, che è appunto questa tua bellezza che mi spinge alla guerra”.
    “E perché?”.
    “Senti, un pensiero orribile alle volte mi stringe il cuore: se un giorno un romano ponesse il piede qui e ti vedesse…!”.
    “Ebbene?”.
    “Ma non sai tu dunque che questi Romani sono dissoluti, e che tu sei molto bella?… Bisogna dunque fugarli, batterli questi ladroni che no contenti di sfruttare e devastare le nostre terre, di toglierci la libertà, contaminano ancora le nostre donne. Oh! Per gli Dei, giuro, o mia Zoesca, che riuscirò a cacciare dalla nostra terra questi crudeli nemici! Ed ora lasciami”.
    “Ancora un istante… l’istante per darti un bacio”.
    E Josto piegò la testa, che la fanciulla cinse con le sue mani, e raccolse dalle tumide labbra di Zoesca uno di quei baci far invidia agli angeli.
    Poi, con un salto fu in groppa al destriero, e cavallo e cavaliere sparirono come un lampo allo sguardo innamorato della figlia d’Orosio.

    Roma intanto vegliava, e saputo da A. Cornelio Mamula come i Sardi male sopportassero il giogo romano, spediva verso l’isola novelli soldati ed un nuovo capitano.
    In quella notte stessa nella quale Josto aveva eccitato i Pellidi alla riscossa, era approdato a Cagliari T. Manlio Torquato con cinquemila fanti e quattrocento cavalieri.
    Seppe Josto dei nuovi rinforzi ed arse di rabbia.
    Mal sofferente d’indugio, e spronandolo alla battaglia ardire soverchio di gloria e ardente amore di patria, si dispose ad attaccare le milizie romane, senza aspettare il soccorso di Cartagine.
    Egli aduna in fretta le schiere, e muove contro le agguerrite legioni.
    Nel cuore dei Sardi stava la fede nella vittoria, perché la leggevano sul volto del loro giovane capitano; e muovevano verso il nemico baldi e fieri, perché non si trema quando si corre a combattere per la libertà.
    Un cavaliere incontra Josto per la via.
    “Quali novelle, o Egesandro?”, domanda il capitano al cavaliere.
    “Che i Cartaginesi tarderanno molto ad arrivare. La tempesta ha gettato le loro navi verso le isole Baleari”.
    “E tanto meglio”, rispose Josto, “basteremo a noi stessi! La Sardegna sarà libera per opere dei soli suoi figli. Avanti dunque, che la vittoria ci aspetta!”.
    E le schiere sarde si mossero verso il campo romano.

    Nel territorio dove oggi sorgono le due città di Oristano e di Bosa avvenne la battaglia.
    Durò dall’alba alla sera, e la vittoria disertò il campo dei Sardi.
    Il valore disperato, inconsiderato degli isolani, andava a frangersi contro le agguerrite e disciplinate legioni di Roma, come la punta di un dardo si spezza contro una roccia di granito.
    Josto era in ogni luogo ove più accanita ferveva la pugna, e trasportato dall’ardore della battaglia, poco si curava della disposizione delle sue schiere, purché il suo ferro roteasse sopra teste romani. Ferire ed uccidere, ecco quello che voleva l’audace capitano.
    Trentamila Sardi lasciarono la vita sul campo di battaglia, diventato da quel giorno terra santa, perché innaffiato dal sangue di tanti valorosi, perché impastato con le ossa di tanti martiri.
    Josto, dopo aver invano per cento volte cercato la morte fra le spade romane, fu a viva forza portato lontano dal campo di battaglia dai pochi superstiti del grande eccidio.

    Il giorno dopo la battaglia arrivò, tremenda come la folgore, fra i Pellidi la triste novella della disfatta.
    Le donne e i fanciulli piangevano, i vegliardi imprecavano alla sventura, e reggendosi a stento sulle mal ferme membra, impugnavano le armi, si provavano a muoverle in giro in atto di chi ferisce, per vedere se il braccio domo dagli anni poteva vendicare i figli uccisi.
    I pochi Pellidi scampati al ferro romano e quasi tutti malconci dalle ferite che sanguinavano, raccontavano la lotta disuguale, ma feroce, accanita. Più di una madre, a somiglianza delle donne di Sparta, cessò di piangere, perché ascoltava le gesta del proprio figliuolo caduto da valoroso; più d’una sposa frenando i singhiozzi, diceva al suo bambino: “Senti, tuo padre è morto da prode; cresci presto e lo vendicherai”.
    Ma le fanciulle che aspettavano il fidanzato e lo sapevano ucciso, piangevano, piangevano, perché comprendevano che da quel giorno il loro cuore era morto per sempre.
    E di queste addolorate senza conforto era Zoesca.

    “Non piangere così, o Zoesca. Io sono vecchio, ed il mio cuore, che resta saldo alle sventure della patria, si spezza per le tue lacrime, o mia figliuola. Non piangere dunque, se ami tuo padre”.
    “Non posso frenare il pianto, o padre mio: perdona. Io penso a lui, ieri sì prode, sì fiero, e oggi fuggitivo, vinto, inseguito come una fiera di capanna in capanna, di cespuglio in cespuglio. Se egli cadesse nelle mani dei Romani!… Dei, quale orribile pensiero!…”.
    “La morte risparmiò Josto sul campo di battaglia perché egli è sacro alla patria; Josto non morrà prima di avere cancellato dalla nostra memoria con una splendida vittoria la sconfitta d’ieri. Il tuo fidanzato è un forte, figlia mia, e a te, che devi essere sua sposa, male si addice il pianto. Attendi e spera”.
    In quel momento entrò presso Orosio un uomo dal grido stravolto, gridando: “I Romani!…”.
    “Che dici, Ecateo?”.
    “Dico che i Romani avanzano verso le nostre capanne. Da lungi io vidi il luccicare delle loro armi percosse dai raggi del sole”.
    “E sono molti?”.
    “Tanti da toglierci ogni speranza di resistenza”.
    “Ebbene, ci troveranno vinti, ma non domati. Le donne cessino di piangere, gli uomini impugnino le armi e si fermino sul limitare delle loro capanne, e se il nemico oserà insultare al nostro dolore, allora si pugni e si muoia, ma come muore un Pellide: con la picca tinta dal sangue del nemico. Vanne”.
    Ed Ecateo andò per la tribù a ripetere le parole di Orosio.
    Il vecchio capo cercò la figlia che non vide più presso di sé. Zoesca era sparita.

    Zoesca fuggendo dalla casa paterna mormorava: “I Romani sono dissoluti, e tu sei molto bella!… egli mi disse prima di partire per la guerra”.
    E pallida come uno spettro, correva per la campagna, oerchè le pareva di essere inseguita da un legionario; ad ogni lieve rumore tremava come foglia mossa dal vento.
    Giunse così in uno spazio erboso attraversato da un rigagnolo che sgorgava da una vicina fontana, e si fermò. Poi guardò intorno, si chinò in riva al ruscello, e divelse con mano febbrile una pianticella dal fusto lungo, filamentoso, con foglioline dentate e di un verde cupo.
    Quella pianticella conteneva un succo che dava una morte certa, straziante.
    Linneo chiamò quell’erba Ranunculus sceleratus, perché fra le piante venefiche è la più perfida: uccide col riso!
    Ed è appunto opinione di molti che dagli effetti di questo veleno sia nata la frase “riso sardonico”, quasi che una tale piante germogliasse solo in Sardegna.
    Zoesca guardò un istante l’erba letale e disse: “I Romani sono dissoluti, ma il mio corpo non sarà da essi contaminato. Josto, mio amore, non potendo dare a te la mia bellezza, la dono alla morte”.
    E iniziò a succhiare l’erba scellerata.
    Dopo brevi istanti, la sua bocca si contrasse, e le labbra, divenute violette, si dischiusero ad un riso secco, forzato, angoscioso, straziante; poi tutto il corpo della bella fanciulla fu invaso da un tremito convulso che andava sempre crescendo.
    La bellezza della figlia d’Orosio era quasi sparita fra gli spasimi di quella orribile agonia.
    “Zoesca, Zoesca!…”, gridò una voce.
    E dal bosco vicino irruppe Josto, pallido, anelante.
    “Sono io, il tuo Josto”.
    E la fanciulla rideva, rideva sempre.
    Quel riso agghiacciò il cuore di Josto perché egli tutto comprese.
    Allora dalle sue labbra fuggì terribile una imprecazione, e raccolta fra le bracia la morente fanciulla, che ancora rideva fra i rantoli della morte, il fiero guerriero, il valoroso Josto piangeva!…
    E diceva: “O Romani, devo a voi la morte di questa fanciulla, e una sconfitta!”.
    E i suoi occhi fra mezzo alle lacrime mandarono lampi d’odio feroce, implacabile.

    Dopo la morte di Zoesca, Josto ritornò banditore di libertà. Percorse l’isola tutta, entrò in tutti i villaggi, picchiò ad ogni capanna; e i Sardi, eccitati dalla sua parola eloquente, inspirata, presero le armi per combattere una nuova battaglia.
    E si pugnò una seconda volta; ma Sardi e Cartaginesi, chiusi in un cerchio di ferro dall’accorto capitano di Roma, videro sfuggirsi la sperata vittoria.
    Josto non volle sopravvivere all’onta di una seconda sconfitta, ed il suo corpo fu trovato seppellito sotto un mucchio di cadaveri nemici.
    Ma il nome di Josto diventò il grido della riscossa, ed i Sardi che ricordao le gesta gloriose dei loro padri, pronunziano ancora con orgoglio il nome del figlio di Arsicora.

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    MARCUZA


    Come sei bella o Marcuza! Quando parli, la tua voce somiglia al dolce suono che tramandano le corde del tuo liuto; quando tu sorridi, le tue labbra, rosse come il corallo del nostro mare, m’invogliano a darti un bacio; quando tu mi guardi, le tue pupille, nere nere, versano nelle mie vene un fuoco che mi si posa sul cuore e lo fa palpitare. O Marcuza, parla, sorridi, guardami!
    E Marcuza guardò il giovane sorridendo, ed Erberto posò le labbra sulla bocca della fanciulla.
    Marcuza era la più bella e gentile fanciulla di Cagliari. Quando passava per le vie, le donne che portavano il seno gravido di prole la guardavano, e poi dicevano: “Signore, fammi diventar mamma di una bambina che somiglia a Marcuza. Tutti i nobili donzelli della città sospiravano per i suoi occhi belli; ed i babbi, che avevano un figliuolo dalle membra gagliarde e dal cuor valoroso, desideravano che menasse in moglie Marcuza, perché nel giorno degli sponsali sarebbe entrato nella loro casa un angelo del Paradiso.
    La bella cagliaritana sembra nata per l’amore e per far dei felici; e chi la mirava diceva, mosso da un pensiero gentile: la sventura ed il dolore non dovevano colpire quella creatura, come la folgore non dovrebbe colpire le chiese.
    Ma la folgore non rispetta il tempio di Dio, come il dolore non rispetta la bellezza.
    Marcuza, fino da bambina, era dannata alla sventura: da dieci anni ella portava le gramaglie per uno di quei dolori che durano quanto la vita.
    Le terribili sciagure che avevano colpito la Sardegna non avevano risparmiato Marcuza.
    Da anni ed anni la Sardegna gemeva sotto un cumulo di sciagure. I Longobardi ed i Franchi lasciarono nell’isola un retaggio: il pianto! Dopo, i Saraceni vi portarono la disperazione.
    Un dissoluto Re di Spagna, Rodrigo, seduce la figlia di un nobile e potente spagnuolo, il conte Giuliani, e questi vendica la figlia con aiutare i seguaci di Maometto a rendersi padroni della patria: e Rodrigo cadde, ma con lui cadde anche la Spagna.
    Così l’onta di un solo divenne l’onta di tutto un popolo.
    Ed ecco che gli indomiti e feroci figli dell’Arabia divenuti forti e potenti, abbandonati i deserti della Libia e le montagne della Soria, invadono l’Europa.
    Un giorno sulle coste della Sardegna irruppero migliaia di Africani. Li conduceva Musato, re feroce e guerriero. Per dove passavano, gli invasori lasciavano un’orma di sangue; dove si fermavano, sorgeva un cimitero!

    Un grido corse da un capo all’altro dell’isola. I nobili Sardi raccolsero i loro vassalli, impugnarono le armi, e palmo a palmo contrastarono il sacro suolo della patria all’avanzare dei Saraceni. Ogni pastore cambiò il suo pastore in una picca, ogni donna del contado la sua canocchia in una lancia, ogni fanciullo un sasso in un dardo. Ma erano troppi i nemici, ed il valore disperato non valse a salvare la patria.
    E Musato divenuto signore di una gran parte dell’isola, stabilisce la sua residenza in Cagliari mezza distrutta dalla ferocia di lui e dalla disperazione dei cittadini.
    E fu allora che il padre di Marcuza, un nobile e valoroso sardo, dopo avere per tre giorni combattuto da eroe contro i nemici cadde mortalmente trafitto da un giavellotto.
    Marcuza rivide il padre ferito che la pietà di alcuni compagni d’armi aveva portato sulla soglia della sua casa, perché egli provasse il supremo conforto dei moribondi, quello di morire fra le braccia di chi ci vuol bene.
    Da quel giorno il volto della fanciulla portò il marchio del dolore, e non sorrise se non quando l’amore versò nel suo seno un mondo di gioie nuove e sconosciute.

    Erberto era un cavaliere pisano, coraggioso quanto un paladino, e bello come un trovatore.
    Quando nel 1004 il pontefice Benedetto VIII chiamò i potentati italiani a liberare la Sardegna dall’orribile giogo dei Saraceni, Pisa, allora ricca e potente, rispose all’invito del Papa, ed armata una flotta poderosa, corse alla liberazione della Sardegna, riuscendo a cacciare dall’isola il feroce Musato.
    Erberto era uno dei capitani della spedizione pisana. Un giorno egli vide Marcuza e l’amò; e Marcuza amò Erberto, perché egli era un valoroso, un vendicatore del padre, e perché era bello.

    “I tuoi baci, o Erberto, mi bruciano le labbra”.
    E Marcuza respingeva dolcemente il cavaliere pisano che voleva carpirle un altro bacio.
    “Ma dimmi”, egli disse, “non sarai tu mia sposa?”.
    “Sì, ma ancora il Signore non ha benedetto il nostro amore”.
    “È vero; ma fra tre giorni, sotto le volte del tempio, gli angeli del Paradiso m’invidieranno perché io allora sarò più felice di loro. Sarà un gran bel giorno! Tu vedrai i miei compagni d’armi renderti omaggio come ad una regina; udrai i trovieri cantare le tue lodi e le gioie d’imene; ascolterai i lieti canti di cento donzelle; il tuo piede poserà sopra i fiori sparsi lungo il tuo cammino; lascerai queste tue vesti brune, e le tue membra leggiadre saranno avvolte in candidi veli trapunti d’oro; sopra i tuoi capelli neri si poserà una corona di fiorellini meno candidi della tua anima, ed io, camminandoti al fianco, dirò a tutti: Guardatela, è questa la mia sposa!
    Poi ti porterò sopra un bel naviglio tutto pavesato a festa, e cullati dal mare tranquillo, con le vele gonfiate da un dolce venticello, ti condurrò nella patria mia. È bella la tua terra, o Marcuza, ma è più bella la città dove sono nato”.
    Udiva la fanciulla ed il suo volto restava mesto.
    “Perché non sorridi?”, disse Erberto.
    “Perché… ho paura!”.
    “Paura!… E di che temi?”.
    “Non lo so. Un triste presentimento mi si posa sul cuore quando palpita per te. Da più notti io veggo in sogno l’ombra del padre mio che mi guarda piangendo; e ieri, quando giunse la sera, uno stormo di corvi passò gracchiando presso il mio verone. Ho paura!”.
    E, stringendosi ad Erberto, posò il capo sulla spalla di lui.
    “Oh! Non temere. Il mio amore distruggerà i malefizi: tu sarai felice. A domani, o Marcuza, e sorridi”.
    Ed Erberto lasciò la fanciulla pensando alle prossime nozze.

    Nella prima ora della notte, le scolte sulle mura della città videro lontano scivolare ad un tratto sul mare alcune fiaccole che somigliavano a fuochi fatui. Erano cento, poi mille fuochi che si avvicinavano, e che, avvicinandosi, si moltiplicavano. L’allarme fu dato, ed il sonno fuggì dall’addormentata città spaventata dal grido: i Saraceni!
    Da ogni casa uscivano i cittadini con le armi in pugno correndo alle mura; e videro il golfo ingombro di galere, ed in mezzo ad ogni galera, illuminata dal sinistro splendore delle faci, stavano uomini armati, i quali, avvicinandosi, mandavano grida selvagge.
    I Cagliaritani risposero con un urlo a quelle grida ed una pioggia di dardi e di pietre cadde come grandine sulle navi nemiche; e la battaglia feroce, disperata, cominciò.
    Ai primi albori, i barbari canti dei Saraceni si mescolavano ai rantoli dei moribondi, e sulla più alta torre di Cagliari sventolava un’altra volta il vermiglio orifiamma con la mezza luna.
    Musato, tornato più feroce e più forte, sfogava sulla misera città tutta la rabbia che egli aveva accumulato nel suo cuore dal giorno che fu cacciato dalla Sardegna.
    In riva al mare, in un punto ove la lotta era stata più accanita, una giovane donna accompagnata da un’ancella piangeva accanto ad un morto.
    I capelli bruni di quell’addolorata lambivano la fronte dell’ucciso;e fra i singhiozzi essa diceva:
    “Tu ieri sognavi la felicità, la vita, ed avesti la morte; tu pensavi al tempio parato a festa ed all’ara nuziale, ed il destino ti schiuse la tomba; tu sorridevi al pensiero di chiamarmi tua sposa e di vedere il mio corpo ornato di bianchi veli, ed ora le mie vesti nere le porterò sotto terra; tu dicevi che un mio bacio ti scaldava il sangue, ma da un’ora io poso la mia bocca sulla tua, e le tue labbra non si muovono, e sono fredde come il ghiaccio; tu volevi ascoltare i trovatori cantare la mia bellezza, ed invece, morendo, udisti grida di disperazione e barbari accenti d’ira”.
    Vedi dunque, o Erberto, se aveva ragione di aver paura.
    “Un giorno tu mi dicesti che l’amore di due vite ne fa una sola; dunque, ora che tu sei morto io pure devo morire. Voglio prima vedere dove porteranno il tuo corpo per essere seppellita con te. Sulla terra che coprirà i nostri corpi nasceranno i fiori, e tu, o mia buona Matelda, li coltiverai, e sopra una croce scriverai: Erberto e Marcuza!
    L’ancella rispose abbassando il capo, perché il pianto le impediva di parlare.

    Un gruppo di Saraceni, ubriachi di sangue, spinti dalla rapina, passò vicino a Marcuza. La bellezza della fanciulla arrestò uno di quei demoni.
    Il Saraceno fissò l’infelice e, rivolto ai compagni, disse sogghignando: “Dio è onnipotente, ed ha mandato un uri per raccogliere l’anima di questo cristiano. Prima però di ritornare nel mondo delle stelle, farai gustare a noi vivi, o bella uri, le dolcezze, che il Paradiso del Profeta riserba ai morti.
    Ed egli mosse verso Marcuza con l’occhio infiammato, e le labbra frementi.
    La sventurata non comprese quelle parole osceni, ma negli sguardi di quei feroci soldati lesse la sorte orribile che l’aspettava.
    Allora ella si alzò, e col braccio armato di pugnale si trafisse due volte il petto.
    Il Saraceno raccolse fra le sue braccia un cadavere!

    I corpi dei due amanti furono gettati in mare, perché era quello il cimitero che Musato serbava ai morti.
    Non una croce dunque segnò la tomba di Marcuza, né i fiori germogliarono sulla sua fossa.
    Però il suo nome non andò scordato.
    Dopo cento anni, alla Corte dei Giudici di Gallura, i trovatori facevano piangere le dame con flebili accenti i tristi casi di Marcuza.


    * * *

    Fonte: "In Sardegna. Leggende e cronache dei tempi antichi" di Giuseppe Bargilli.
    Seconda edizione ampliata.
    Bologna, Zanichelli Editore, MDCCCLXXXI.

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